top of page

Clementina Perone

Mi chiamo Clementina Perone...

Clementina Perone

Sono Clementina Perone, classe 1894, ma tutti mi chiamano Tina. Sono la bambina che canta nei cori dei circoli operai, che lavora fin da giovanissima in una fabbrica di coperte e che chiede al suo papà Guglielmo, anarchico convinto, di comprarle una bicicletta per andare da Torino a Brandizzo a fare scuola serale alle tessitrici. Mi iscrivo alla gioventù socialista e collaboro al giornale L’Ordine Nuovo fondato da Gramsci, ma vado anche ai balli organizzati dalla Camera del Lavoro. È qui che conosco Angelo Benna e lo sposo. Nostra figlia Aurora nasce mentre infuria a Torino la Rivolta del pane, nel 1917. Negli anni degli scioperi, delle occupazioni, degli scontri armati con gli squadristi, giro con un revolver nascosto nello chignon.
Mi separo da mio marito che non si occupa di politica e forse simpatizza troppo con i fascisti e mi innamoro di Giovanni Parodi, il capo della rivolta alla FIAT durante l'occupazione delle fabbriche. Insieme abbiamo un figlio, Bruno, ma quando nel 1923 i fascisti mi accusano di detenzione di armi sono costretta a scappare prima a Berlino e poi a Mosca, dove raggiungo il mio Giovanni. I bambini non posso portarli con me, restano in Italia, affidati a parenti.
L’URSS sembra un paradiso, mi sento valorizzata. Lavoro negli studi cinematografici moscoviti e poi all’ Università comunista delle minoranze nazionali dell'Occidente. Ma arrivano i tempi bui delle purghe staliniane: mi accusano di reati controrivoluzionari, vengo arrestata, torturata e detenuta alla Butyrka nel 1938 e poi di nuovo nel 1940. Poi la deportazione: sette anni a Karagandà, in Kazakhstan, e dopo un brevissimo periodo di libertà, altri sette a Igarka, in Siberia. Nel 1927 Giovanni rientra clandestinamente in Italia. Arrestato, passerà lunghi anni in carcere prima di partecipare alla Resistenza e diventare poi un esponente di spicco del PCI. Si fa un’altra famiglia e io sono abbandonata al mio destino. Mi aggrappo ad un'intensa corrispondenza con mia figlia Aurora. Le scrivo con mezzi di fortuna su pezzi di carta qualunque trovati in giro, per esempio sul retro delle etichette delle scatole di pesce. Non le dirò mai esplicitamente della mia condizione di carcerata, di deportata. Utilizzerò sempre la metafora della «malattia» per la quale il sollecito sistema sovietico mi starebbe impartendo le adeguate e prolungate cure necessarie.
Nel 1954 vengo scarcerata dal gulag e aspetto ancora anni per ottenere la riabilitazione del partito e poi, nel 1957, il passaporto per tornare in Italia. Il 7 gennaio 1958 arrivo a Malpensa con il mio cappottone sovietico e un distintivo rosso con il volto di Lenin e abbraccio finalmente Aurora che avevo lasciato bambina.

bottom of page